Scritto da Pasquale Sbrizzi
Illustrato da Olimpia Piragina
Signor Eli
Ore 01:58.
Via Fulci, solito trionfo di desolazione notturna: un lungo e deserto stradone illuminato dal lucore malaticcio di vecchi lampioni, un budello suburbano troppo cresciuto di asfalto e marciapiedi insudiciati da feci canine e abbruttiti da aiuole abbandonate all’incuria. Tra due alberelli rinsecchiti, scheletri vegetali soffocati dalle polveri della vicina area industriale, Mario Veneruso, un colosso dalla testa rasata alto due metri e dieci per centoquarantasei chili, attendeva l’arrivo della linea C15 alla fermata degli autobus. La vettura era in ritardo di ben diciotto minuti: normale amministrazione per un servizio di trasporto pubblico locale che versava in una disorganizzazione babelica, un pandemonio logistico che, assieme alla proverbiale svogliatezza degli impiegati del settore, contribuiva ad esacerbare la frustrazione di quelle povere anime sventurate sprovviste di automobile, categoria di cui Mario Veneruso, trentadue anni e disoccupato cronico di professione, era esponente illustre.
Seduto all’estremità opposta della panchina, in uno spettacolo grottesco di antitesi fisionomica, un ragazzo di corporatura esile e dai capelli corvini lisci e lunghi fino alle spalle, isolato nel silenzio imbronciato di una posa a braccia conserte, aspettava anche lui l’autobus. Sulla base dell’ossessione similtassonomistica della società odierna, sarebbe stato classificato come un esemplare appartenente alla sottospecie umana dei metallari per le sue scelte stilistiche.
All’improvviso, annunciato da un rombo di tuono, un riff di chitarre distorte risuonò nella notte muta di Via Fulci: era l’intro di “Raining Blood” degli Slayer. Il ragazzo, con un gesto rallentato da bradipo, estrasse quindi il suo smartphone dalla tasca dei pantaloni: mentre premeva su “accetta chiamata” zittendo la suoneria thrash metal, Mario notò il suo pigro disappunto deformarsi in una maschera di rabbia.
«Perché cazzo mi chiami ancora, troia di merda?» ruggì al telefono il metallaro. «Non sono stato chiaro l’ultima volta? Ti ho detto di non farti più sentire!».
«No… no, non c’impicciamo, Signor Eli» suggerì a sé stesso Mario Veneruso, scandendo l’imperativo nel suo cervello. «Non ci riguarda».
«Ma scusa un cazzo, Lara! Sei una zoccola, hai capito? Una zoc-co-la!» continuò il ragazzo infuriandosi, «sono finito in terapia per colpa tua! Per tutte le corna che mi hai messo!».
«Ah, capisci?», osservò ridacchiando il Signor Eli, «lo spaventapasseri qui, per una sciacquetta in calore, è addirittura finito dallo strizzacervelli! Deve avere qualche rotella fuori posto, secondo me!».
Mario, con una smorfia distesa di compatimento, annuì grave.
«Sei solo una merda!», inveì il metallaro con le vene del collo gonfie come pneumatici, «ma… ma ‘cerca di capire le mie ragioni’ un cazzo! Va’ a cagare, puttana! Troia!».
«Cristo Nazareno! Ma per quanto ne ha ancora questo tizio? Che fastidio…».
«Avete proprio ragione, Signor Eli» confermò Mario seccato. «E poi, diavolo, che maleducato! C’è gente che dorme a quest’ora!».
«Ecco, allora perché non fai un bel favore alla comunità oltre che alle mie orecchie, fustacchione?».
«Favore? Che favore?».
«Uccidilo».
Il giovane infuriato, all’oscuro del dialogo mentale tra l’enorme individuo seduto a un metro e mezzo da lui e il sanguinario nella sua grossa testa rasata, continuava nel frattempo a vomitare insulti all’interlocutrice della chiamata: «Sei solo una cagna! Una cagna schifosa, questo sei!», strillava più arrabbiato che mai.
«No, non mi va stasera, Signor Eli», rifiutò Mario.
«Ma dai!», protestò la voce, «sei un fottuto colosso! E lui un microbo pelle e ossa che a malapena si regge in piedi! Sarà uno spasso!».
Il gigante, però, paralizzato in una nervosa stasi decisionale, esitava.
«Bah, lo sapevo: sei il solito cacasotto…».
«Vi prego, non ricominciate» rispose Mario con un pensiero implorante.
«Ciccione vigliacco! Mongoloide ritardato e impotente!».
«Perché siete sempre così cattivo con me?».
«Perché questo meriti, verme schifoso! Rottinculo fallito!», ringhiò il Signor Eli, rincarando la dose. «Sei soltanto il re dei cazzi, mi hai sentito? Il. Re. Dei. Cazzi: Sua Maestà Mario I delle Minchie».
«Basta così, vi scongiuro», gli occhi del gigante si erano riempiti di lacrime, «mi ferite troppo quando mi parlate così».
«Merdaccia umana, insignificante cerebrol—»
«E va bene! Va bene!», esclamò Veneruso muto, ormai sull’orlo del pianto, «lo faccio! Così non mi mortificate più!».
Il metallaro fu colto di sorpresa e incapace di reagire: il pugno di Mario, un violentissimo gancio destro, gli fracassò zigomo, tempia e due molari, atterrandolo con la potenza di un colpo di fucile.
Lo smartphone si disintegrò sull’asfalto.
«Bel colpo, Rocky!», gioì il Signor Eli galvanizzato da un’eccitazione sadica, «dacci dentro, su! Spaccagli la faccia!».
Il debole guaito del ragazzo aggredito, in preda alle convulsioni di una grave commozione cerebrale, fu messo a tacere dalla gragnola di calci di Veneruso: una fitta mitraglia di percosse potenziate dal suo quarantanove antinfortunistico che trasformò, in pochi istanti, il viso della vittima in un grumo sanguinolento e rantolante di denti frantumati, una granguignolesca scultura cubista di carne tumefatta.
«Non ti fermare! Non vedi che respira ancora?! Finiscilo! Ammazzalo, cazzo!».
Mario, assordato dalle incitazioni crudeli che tormentavano la sua psiche, scoppiò a piangere a dirotto e, con un ultimo impeto di disperazione omicida, assestò tre brutali pedate sulla gola del moribondo: tra gli estremi singulti ribollenti di sangue zampillante, il collo del metallaro si spezzò come un ramoscello secco.
«Siete contento, ora?» singhiozzò l’assassino con la voce di basso arrochita dal pianto.
«Ah, sììì… finalmente: silenzio».
Una coppia di fari, in quel momento, balenò dal fondo buio di Via Fulci.
«Oh, eccolo qua!», notò la voce, «Ce ne ha messo di tempo, il catorcio!».
Veneruso, con uno scatto da atleta olimpionico, incredibile per la sua stazza, si gettò contro la C15 in corsa.
© illustrazione di Olimpia Piragina | Racconto di Pasquale Sbrizzi| Editing di Chiara Bianchi
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