Scritto da Lucio Dell’Accio
Illustrato da Manuela Stacca
Dalgado
Il vento rosso increspava la superficie delle dune, veli diafani di sabbia vorticavano nell’aria rovente. Macchie d’ombra si perdevano nella luce. Temeva la furia di ogni soffio e il fremito cupo della sabbia che franava. La pelle polverosa della terra cedeva al passaggio degli insetti, si aprivano squarci sottili, i granelli argentati cadevano sul fondo e abbandonavano altri granelli ad arginare quei solchi spalancati. Aliti di umidità spiravano dalla costa, minuscole sfere d’acqua iridata si addensavano sulla pelle dei rettili nascosti. Un cieco seduto sulla curva dell’orizzonte, un derviscio solo davanti a Dio, masticava pezzi di vetro, poi scompariva verso est sotto il sole che bruciava il deserto. Sul crinale di una grande duna comparvero i cavalli al galoppo. Sentiva il tonfo degli zoccoli che penetravano nella sabbia. Aprì gli occhi. Il letto sembrava un sepolcro vuoto, su cui cadevano i raggi cobalto del monitor. Lo scorpione giallo con l’aculeo che spuntava dalla coda stava immoto sul suo addome, lo scrutava. Fermò il respiro. Provò a muovere le gambe, ma rimasero inerti. Lo scorpione avanzò rapidamente, cercò una fessura e si inabissò sotto la sabbia infuocata. Dalgado guardò verso la finestra socchiusa, sopportò una vertigine carica di dolore. Fuori le nuvole erano grembi gonfi tagliati dai fulmini. Non sentiva i rovesci di pioggia che colpivano il davanzale, solo il rumore lontano delle palline di vetro che rimbalzavano sul pavimento. Inseguiva i salti di una biglia rossa negli specchi della grande stanza, quando non parlava, quando quel suono era la sua lingua. Le avvicinava alle iridi, ci guardava dentro, contro il sole, e vedeva mondi inaccessibili. Il cielo taceva nell’aria immota della notte. Tornava l’eco dei calpestii sordi e delle voci in mezzo alla luce accecante della sala operatoria. Dalgado richiuse gli occhi. Persistevano cerchi globi archi luminosi e l’ombra del suo corpo che si disarticolava come una marionetta abbandonata e precipitava. Le mani non si strinsero, il secondo trapezio non era nel punto dello spazio in cui lo aspettava, rimase solo nel vuoto. I clown si avvicinarono, aveva visto le loro maschere disperate mentre tutti urlavano. La caduta era impressa nelle sue pupille, e le scie variopinte dei riflettori, l’eco delle melodie dei suonatori del circo, i tafferugli dei clown che inciampavano sulle loro grandi scarpe screziate per calmare la paura dei bambini, si erano incisi nei solchi della sua mente tumefatta. Ogni figura franava sotto quella pioggia lontana e senza suoni. Si era addestrato per tanto tempo ad affrontare l’abisso. Annullava ogni pensiero e volava da un trapezio all’altro senza esitare, eseguiva i suoi esercizi senza rete con la stessa forza delle sfere che fluttuano nel cosmo. Un dolore potente lo prese alla testa, continuava a pulsare, poi la fitta si perse nel suo organismo spezzato. Percepiva le sue cornee irrorate di sangue, e ogni lacrima ferma ai bordi degli occhi. Vedeva lo spazio della stanza e il suo riflesso offuscato. Il soffitto era liquido, increspato dalle onde che si infrangevano sugli scogli e spingevano i ciottoli levigati, persi sul fondo. Sullo schermo del monitor serpeggiavano le linee luccicanti della sua vita, somigliavano alle righe che scriveva in un quaderno dopo ogni spettacolo, alle parole che dicevano le apparenze che portava dall’alto. Aveva provato a mettere in versi i suoi vortici, le sue capriole valorose, ma le parole non erano come le biglie puntate verso il sole, e aveva bruciato i fogli nel fuoco. Si è acrobati o poeti. Prima amare, o prima cercare? Pensò con le palpebre socchiuse. In quale città era finita Djémila? Djémila con le dita delle mani e le gambe tatuate con i segni dei pianeti. Djémila con gli occhi carichi della luce di Aldebaran. Da bambina era stata infibulata in un villaggio sul bordo del deserto, dove c’era una biblioteca e le pagine dei libri erano piene di antiche scritture e di granelli di sabbia. Lavorava alla cassa dell’autoscontro, nell’esedra del Luna Park di Cordova. Una sera la giostra era deserta e Djémila si riempì le mani di gettoni colorati e lo invitò sulla pista. Salirono sulle macchine e si inseguirono lungo le linee curve, sorridevano e si urtavano sotto le folgori che sibilavano tra le maglie della rete elettrica, attraversavano gli aloni delle luci intermittenti che tingevano i loro volti, al ritmo di una milonga che suonava lontana, nella torre dei seggiolini volanti. Lo aveva ammirato durante il suo spettacolo, aveva sospeso il respiro, certe volte la sua figura diventava invisibile. «Cosa si prova?», chiese Djémila, ferma al centro della pista, seduta nella sua macchina color rubino. Dalgado volteggiava come il derviscio che una volta aveva visto danzare nel deserto dello Yemen, si librava in quella profondità celeste, e ogni accelerazione della materia lo gettava nelle viscere segrete della vita. Da quell’altezza, la gente appariva infelice, sembrava che aspettasse il farmaco dei suoi vagabondaggi sull’abisso. Anche i domatori, i cavallerizzi, i musicisti e i clown seguivano i suoi passaggi, contemplavano i suoi voli carpiati, gli avvitamenti chimerici e i salti mortali senza rete. Portò Djémila sul trapezio una mattina, la tenne stretta e la fece ondeggiare sopra gli artisti che si allenavano mentre gli elefanti giravano intorno alla pista. Non si doveva provare niente, c’era solo l’abbandono alla leggerezza, e il mistero.
«Come un corpo che cerca di vivere nell’utero di una madre», disse Djémila. Tornava ogni sera e si metteva nello stesso posto, vicino ai clown. Dalgado riusciva a vedere i suoi sorrisi durante i salti mortali, e il luccichio dei suoi occhi. Il suo cuore rallentò i battiti, ebbe nausea. La sua spina dorsale era franata per sempre. Cosa avrebbe fatto? Cosa sarebbe accaduto al suo corpo, che sentiva così estraneo e deforme? Il suo essere era stato profanato del destino. «Se cadi, rialzati. Non conosco altro modo per vivere. È l’ultimo sentiero», gli disse il suo unico maestro, un vecchio clown solitario, che recitava Don Chisciotte sotto la luce di Aldebaran, nella Plaka di Atene. Gli insegnò ad abitare le terre di confine, a esplorare lo stupore di non essere. Dalgado amava le strade, le piazze, le rive dei fiumi, si smarriva nei vicoli, e aveva costruito nel cielo del circo la sua città senza centro, con le strade, i fiumi e le piazze, i vicoli delle sue visioni, i miraggi che attraversava con le sue spirali. Volava nella luce solida che scoprì da bambino nei lunghi pomeriggi d’estate storditi dal sole, nella piazza del suo paese circondato dalla pianura riarsa, solitario ai piedi dell’epitaffio di marmo, con le tasche dei calzoncini rigonfie di biglie colorate, diafane, e di avorio. Restò nella stanza di una pensione di Amsterdam, non uscì fino alla sera. Guardò la città oltre il lucernario, il pallore delle strade verso l’imbrunire, pensò a Djémila. Si arrampicò tra le barre e le funi, avvolto nel raggio di un faro, guidato dalla musica dell’orchestra, e fissò il trapezio fermo nel buio, mentre i leoni ruggivano nel serraglio. Oscillò molte volte, con il corpo arcuato, prima del salto mortale. Si accorse del tremito alle mani durante un avvitamento, sentì l’addome sventrato da un tormento indecifrabile, che saliva all’improvviso e gli toglieva la forza e il respiro. Sfiorò un’epidermide di seta, ardente. La stanza si immerse in un lucore colorato come il rubino. Le palpebre si chiusero. Il suo corpo senza forma entrò in una cavità madida di cui riconosceva soltanto il calore. Galleggiò in una terra fluida, taciturna, appagante come l’oblio, l’ossigeno gli gonfiava i polmoni, entrava nel suo corpo insieme al sangue che pulsava nelle vene. Trasentì il tumulto avvolgente del suo cuore e della voce lontana di una donna. Una sferzata di vento sollevò una nuvola di granelli di sabbia che annerì la luce sul crinale della duna.
Per non perdersi in quella tenebra di polvere non bastavano i raggi del sole.
© illustrazione di Manuela Stacca | Racconto di Lucio Dell'Accio | Editing di Chiara Bianchi
Dalgado | Racconto | Indigeribili
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