Illustrato da Jari Di Giampietro acquerello su carta cotone
Scritto da Luca Mancin
Vonk
L’ho vista martedì in biblioteca. Parlava con le sue amiche. Rideva. Dopo aver aperto la porta, mi ha urtato e si è voltata d’istinto.
«Scusa», ha detto, ancora con il sorriso stampato sulle labbra. I suoi occhi si sono posati su di me giusto un momento.
Io sono rimasto in mezzo al corridoio, irrigidito.
Questo insignificante incontro mi ha ricordato che il mondo reale, fatto di carne e ossa, esiste ancora. E non è accogliente come lo ricordavo. Di certo non è confortevole come quello alternativo e digitale in cui mi posso rifugiare ogni volta che lo desidero.
La ragazza si chiama Blauwe, o perlomeno questo è il nickname che utilizza su Vonk.
Che cos’è Vonk? Un’app d’incontri, ma anche molto di più.
È come quando non ricordi se hai chiuso il gas e continui a pensarci tutto il tempo, come quando ti scappa così tanto che il tuo cervello non riesce a pensare ad altro o come quando, da bambino, ti svegliavi all’alba la mattina di Natale per scartare i regali.
Ho letto online che l’algoritmo di Vonk apprende a una velocità tripla rispetto a quello di altre piattaforme. Qualcuno dice che è in grado di anticipare le tue pulsioni. Il meccanismo è semplice, come quello di qualsiasi altra app d’incontri. Sulla home appare una serie di foto di persone nei paraggi e tu scorri a destra se sei interessato, a sinistra se vuoi scartare la persona proposta.
Vonk mercifica tutto, materializza i sentimenti, ti fa credere che sia tutto un gioco. E allora mi svago, e passo ore a far scorrere il mio pollice sullo schermo, come se dovessi scegliere la mia prossima lampada o chissà cos’altro. Vonk ti obbliga a diventare poligamo, a nullificare il concetto canonico di relazione amorosa. Ti spinge a non accontentarti mai, a cambiare partner ogni giorno, per tutto l’anno.
Per tutta la vita.
Quando riemergo dalle mie tre, quattro ore di sessione compulsiva, con gli occhi arrossati, secchi e pieni di spilli, e la home di Vonk si svuota di tutte le proposte, resto lì, devastato dal vuoto che sento dentro.
E penso avesse ragione Faulkner in Luce d’agosto. Scrisse che hanno fatto bene a mettere l’amore nei libri perché non sarebbe in grado di sopravvivere da nessun’altra parte. Io non so se sia davvero così, ma sono certo che su Vonk l’amore non possa starci.
Non mi dà fastidio usare un social network per trovare la mia anima gemella. Dopotutto, uso già il telefono per informarmi, per guardare un film, per monitorare il mio stato di salute, per pagare, per fare le foto. Quindi, perché non dovrei utilizzarlo anche per una delle tante altre funzioni della mia vita?
Apro in continuazione l’app, in ogni frangente della mia giornata. Il dito scorre sullo schermo e senza che nemmeno me ne accorga sono immerso nella home di Vonk. È questa ossessione che mi spaventa.
Se vogliamo vedere il lato positivo della faccenda, perlomeno non sono l’unico cui fa questo effetto. Questo gesto meccanico si chiama rinforzo positivo intermittente, ho letto su un blog, e in pratica è il funzionamento alla base delle slot machine. In questo modo, la tecnologia persuasiva innesta un’abitudine inconscia e io sviluppo una dipendenza dallo smartphone e da ciò che esso contiene.
Ora, ho sempre avuto un misto di repulsione e di compatimento per i poveri cristi che stanno ore davanti alle slot in quei bar luridi e bui. Repulsione perché mi chiedevo come diavolo si facesse a ridursi in quello stato; compatimento perché mi immedesimavo e pensavo che, piuttosto, mi sarei ucciso se mi fossi trovato al loro posto.
E adesso sono incastrato nella stessa situazione.
C’è questa nuova funzione su Vonk, per cui l’algoritmo ti abbina a un partner compatibile sulla base delle risposte di un questionario.
Mi piace questa idea, perché sono uno che considera l’aspetto fisico fino a un certo punto. Per me, conta molto di più instaurare un bel rapporto sul piano personale, trovare delle affinità mentali. Per il resto, mi va più o meno bene tutto. L’unica cosa che proprio non tollero sono gli occhi azzurri.
Non so perché, ma mi danno fastidio. Una ragazza dagli occhi azzurri mi turba, provo disgusto. Emma Watson o Nathalie Portman sono due ragazze bellissime, ma se avessero gli occhi azzurri proprio non potrei accettare le loro avance.
In ogni caso, Vonk mi ha combinato con Blauwe. E abbiamo parlato molto e lei sembrava interessata e simpatica e tutto il resto. E mi trovavo bene a scriverle e ad aspettare un suo messaggio.
Tuttavia, questo fatto che lei tre giorni fa mi sia sfilata davanti, che esista oltre la realtà virtuale di Vonk, che abbia una vita e delle amiche, che ci sia la possibilità che non voglia rendermi parte della sua esistenza nel mondo reale, ecco, tutte queste cose mi stravolgono.
È il velo di Maya che viene lacerato, è Neo che scopre l’esistenza di Matrix.
E non ho la forza di lottare contro gli Agenti.
Io sono innamorato di Blauwe e basta.
Per questo odio un po’ Vonk. Perché se Blauwe parla con me, ma dal vivo nemmeno mi riconosce, allora vuol dire che è tutto finto, artificiale, costruito. L’amore, aveva ragione Faulkner, sta solo nei libri perché altrove si fotte e si deteriora.
E poi ho pensato ai social come a una grande vetrina in cui ciascuno fa a gara per mettere in mostra la sua vita perfetta: un’appendice immateriale del nostro mondo, dove mostrare a tutti quanto si è colti e originali, i viaggi da favola che ci si può permettere o altre cose di questo tipo.
Su Vonk è lo stesso, e in bella vista si mette il proprio appeal sessuale, i chili di muscoli e i propri denti bianchissimi.
Io però non so se ce la faccio, se posso reggerlo. Soprattutto ora, con questa sovrabbondanza di prodotti, di corpi, le possibilità di essere selezionato si riducono drasticamente.
Forse dovrei vivere nei libri, perché lì, almeno, sarei al sicuro – come l’amore.
Comunque, è inutile piangersi addosso. Bisogna saper voltare pagina, andare avanti.
Così, esco di casa: non lo faccio da tre giorni, da quel maledetto martedì.
Aspetto Blauwe davanti all’ingresso della biblioteca. Arriva ed è in compagnia delle amiche. Ridono. Lei mette le mani davanti alla bocca. I capelli riccioluti e biondicci ondulano, mossi dalle dita trasparenti del vento.
Quando è vicina a me si ferma, cerca qualcosa nella borsa.
Faccio due passi verso di lei.
«Blauwe», la chiamo.
Lei alza la testa.
Quando ero piccolo, mio padre mi diceva sempre di tenere i coltelli affilati con la punta rivolta verso il pavimento, così se fossi caduto non me lo sarei conficcato nel ventre. Mi sono sempre chiesto con quale facilità la lama penetrasse nella pancia. Se facesse qualche rumore o se la carne facesse resistenza.
Ora lo scopro: meno di un secondo, silenzio assoluto, zero attrito.
Blauwe ha un’espressione sorpresa, disorientata
Le labbra si arricciano.
La fronte inizia a corrucciarsi, anticipando lo spasmo di dolore.
I riccioli rimangono sospesi a mezz’aria.
Il mio sguardo indaga ogni centimetro del suo volto. Famelico, come mani nude che scavano nella terra.
Finalmente mi guarda in faccia.
Ha gli occhi azzurri, dannazione.
Non avrei mai potuto amarla.
© illustrazione di Yaridg acquerello su carta cotone | Racconto di Luca Mancin | Editing di Chiara Bianchi
Vonk | Racconto | Indigeribili
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