© illustrazione di Andrea Caligaris | Racconto di Nadia Caruso
Fughe
Le mattonelle erano squadrate, grezze sulla superficie ma dai bordi netti.
Il gioco era semplice, era la natura stessa delle mattonelle a richiamarlo, quei confini grigiastri tra una e l’altra, linee di separazione del singolo, terra di nessuno: non bisognava calpestare le fughe.
Da bambini si parlava di flussi di lava bollente e fiumi di acque torbide e velenose ad attraversarle, perfettamente dritte e sempre presenti le fughe non ammettevano alcun errore e calpestarle costava sempre molto in termini di vite umane, amputazioni e arti deformati a causa dei gas velenosi. Le anomalie ambientali erano svanite col sopraggiungere degli anni, niente più lingue di lava o fumi tossici, il tempo era necessario alla vita, all’instancabile realtà della quale ogni fuga restava ancora e comunque presuntuosamente impraticabile.
I passi rimbombavano per la strada deserta e la luce dei lampioni era fredda, gelida, ogni passo increspava il silenzio attorno come fosse fatto di ghiaccio.
Marla poggiava prima la punta e poi il resto del piede sul suolo, con attenzione, perché il ghiaccio non si rompesse e le fughe non ci finissero sotto.
Le avevano insegnato la leggerezza delle punte, da piccola, quando ancora sapeva quasi a stento camminare, le avevano insegnato l’eleganza e la leggerezza che un paio di scarpette di raso portano a chi le indossa, e nonostante il dolore e il sudore e la fatica, la leggerezza era sempre prevalsa e la lava, quella sotto i piedi, tra le mattonelle, nei meandri più reconditi dei suoi ricordi d’infanzia, la lava aveva bisogno di leggerezza.
La lava avrebbe sempre avuto bisogno di leggerezza.
Il primo fischio arrivò senza che lei lo sentisse davvero.
Un passo dietro l’altro finite le prove, verso casa nel silenzio increspato, prima le punte e poi le piante, evitando il rosso della lava bollente tra una lastra di ghiaccio e l’altra.
Il primo fischiò arrivò e le increspature del silenzio non furono abbastanza grandi da guardarci attraverso, squarci verso una realtà fatta di raso e miasmi che Marla evitava di guardare, con gli occhi e l’attenzione riservati esclusivamente al suolo.
Il fischio arrivò e le fece pensare ai treni, ai lunghi viaggi su vagoni strapieni di gente, e poi ancora a salite e discese, alla gente accalcata tra le sedute del pubblico, a stormi di genitori, zii e parenti incitanti, al caos del vociare indistinto e a quanto fossero sottili, troppo sottili, inesistenti, le fughe tra i listelli di parquet del palcoscenico.
Le fughe inesistenti di un palco su cui non c’erano ne lava ne miasmi, ma un agglomerato cacofonico di corpi che si ridestava tremante alla prima nota del pianoforte.
Il secondo fischio fu più forte, dritto, prese a picconate i lastroni di ghiaccio, fece strabordare la lava e trapelare i miasmi, tra le voragini in crescita che un tempo erano state singole fughe. La macchia in movimento vicino a lei fischiò ancora, questa volta più forte, i contorni distinguibili dietro il ghiaccio assottigliato: «Dove te ne vai a quest’ora?»
Quando ballava sulle punte le scarpette erano sempre troppo dure, le piegava decine, centinaia di volte, ma nonostante ogni tentativo le scarpette ci mettevano mesi ad ammorbidirsi.
Girava e girava, le scarpette di raso riflettevano la luce e le slanciavano la figura, ma sotto le punte le fughe erano impossibili da evitare.
Girava e girava e finiva sulle fughe, senza che potesse impedirlo, con la lava pronta lì, in agguato, e i veleni che le entravano in corpo senza che gli si potesse opporre.
La lava la ustionava, il gas la intossicava, e lei continuava a girare, e a ogni giravolta il suo viso tornava sempre e comunque nella stessa posizione di partenza, coi capelli perfettamente tirati indietro e le scarpette strette e rigide e appesantite dalla lava.
Volteggiava e tornava in posizione, con le scarpette e il sorriso sempre più pesanti.
«Guarda che parlo con te».
I lastroni di ghiaccio ormai tramutati in singoli Iceberg alla deriva, le fughe tra loro immensi canyon rossi di lava, solchi profondi nella carne viva.
Marla prese il cellulare dalla borsa che portava a tracolla senza staccare gli occhi dal suolo, schiacciò qualche tasto e se lo attaccò all’orecchio, il passo accelerato dal percorso nel ghiaccio che si disfaceva velocemente sotto i suoi occhi, svelandosi acqua buona solo per sprofondarci dentro.
Quando la macchia ruppe il ghiaccio e le fu addosso, spingendola con le spalle al muro, Marla aveva ancora il cellulare attaccato all’orecchio.
Ogni volta che telefonava, sapeva che l’unica voce ad attenderla era la sua.
Non telefonava a nessuno e telefonava a tutti, telefonava al vuoto al nulla agli iceberg ai miasmi tossici alle sue scarpette così leggere e così irrimediabilmente pesanti, ai treni affollati, al vociare del pubblico, a quella prima singola nota di pianoforte e alle fughe rosse di carne viva; telefonava all’universo, a chiunque e nessuno in particolare, ma c’era sempre e solo la sua voce ad attenderla, e il suono meccanico del telefono dall’altro capo della linea, che continuava a squillare a vuoto.
Il gioco era semplice, era la natura stessa delle mattonelle a richiamarlo, quei confini grigiastri tra una e l’altra, linee di separazione del singolo, terra di nessuno: non bisognava calpestare le fughe.
Da bambini si parlava di flussi di lava bollente e fiumi di acque torbide e velenose ad attraversarle, perfettamente dritte e sempre presenti le fughe non ammettevano alcun errore e calpestarle costava sempre molto in termini di vite umane, amputazioni e arti deformati a causa dei gas velenosi. Le anomalie ambientali erano svanite col sopraggiungere degli anni, niente più lingue di lava o fumi tossici, il tempo era necessario alla vita, all’instancabile realtà della quale ogni fuga restava ancora e comunque presuntuosamente impraticabile.
I passi rimbombavano per la strada deserta e la luce dei lampioni era fredda, gelida, ogni passo increspava il silenzio attorno come fosse fatto di ghiaccio.
Marla poggiava prima la punta e poi il resto del piede sul suolo, con attenzione, perché il ghiaccio non si rompesse e le fughe non ci finissero sotto.
Le avevano insegnato la leggerezza delle punte, da piccola, quando ancora sapeva quasi a stento camminare, le avevano insegnato l’eleganza e la leggerezza che un paio di scarpette di raso portano a chi le indossa, e nonostante il dolore e il sudore e la fatica, la leggerezza era sempre prevalsa e la lava, quella sotto i piedi, tra le mattonelle, nei meandri più reconditi dei suoi ricordi d’infanzia, la lava aveva bisogno di leggerezza.
La lava avrebbe sempre avuto bisogno di leggerezza.
Il primo fischio arrivò senza che lei lo sentisse davvero.
Un passo dietro l’altro finite le prove, verso casa nel silenzio increspato, prima le punte e poi le piante, evitando il rosso della lava bollente tra una lastra di ghiaccio e l’altra.
Il primo fischiò arrivò e le increspature del silenzio non furono abbastanza grandi da guardarci attraverso, squarci verso una realtà fatta di raso e miasmi che Marla evitava di guardare, con gli occhi e l’attenzione riservati esclusivamente al suolo.
Il fischio arrivò e le fece pensare ai treni, ai lunghi viaggi su vagoni strapieni di gente, e poi ancora a salite e discese, alla gente accalcata tra le sedute del pubblico, a stormi di genitori, zii e parenti incitanti, al caos del vociare indistinto e a quanto fossero sottili, troppo sottili, inesistenti, le fughe tra i listelli di parquet del palcoscenico.
Le fughe inesistenti di un palco su cui non c’erano ne lava ne miasmi, ma un agglomerato cacofonico di corpi che si ridestava tremante alla prima nota del pianoforte.
Il secondo fischio fu più forte, dritto, prese a picconate i lastroni di ghiaccio, fece strabordare la lava e trapelare i miasmi, tra le voragini in crescita che un tempo erano state singole fughe. La macchia in movimento vicino a lei fischiò ancora, questa volta più forte, i contorni distinguibili dietro il ghiaccio assottigliato: «Dove te ne vai a quest’ora?»
Quando ballava sulle punte le scarpette erano sempre troppo dure, le piegava decine, centinaia di volte, ma nonostante ogni tentativo le scarpette ci mettevano mesi ad ammorbidirsi.
Girava e girava, le scarpette di raso riflettevano la luce e le slanciavano la figura, ma sotto le punte le fughe erano impossibili da evitare.
Girava e girava e finiva sulle fughe, senza che potesse impedirlo, con la lava pronta lì, in agguato, e i veleni che le entravano in corpo senza che gli si potesse opporre.
La lava la ustionava, il gas la intossicava, e lei continuava a girare, e a ogni giravolta il suo viso tornava sempre e comunque nella stessa posizione di partenza, coi capelli perfettamente tirati indietro e le scarpette strette e rigide e appesantite dalla lava.
Volteggiava e tornava in posizione, con le scarpette e il sorriso sempre più pesanti.
«Guarda che parlo con te».
I lastroni di ghiaccio ormai tramutati in singoli Iceberg alla deriva, le fughe tra loro immensi canyon rossi di lava, solchi profondi nella carne viva.
Marla prese il cellulare dalla borsa che portava a tracolla senza staccare gli occhi dal suolo, schiacciò qualche tasto e se lo attaccò all’orecchio, il passo accelerato dal percorso nel ghiaccio che si disfaceva velocemente sotto i suoi occhi, svelandosi acqua buona solo per sprofondarci dentro.
Quando la macchia ruppe il ghiaccio e le fu addosso, spingendola con le spalle al muro, Marla aveva ancora il cellulare attaccato all’orecchio.
Ogni volta che telefonava, sapeva che l’unica voce ad attenderla era la sua.
Non telefonava a nessuno e telefonava a tutti, telefonava al vuoto al nulla agli iceberg ai miasmi tossici alle sue scarpette così leggere e così irrimediabilmente pesanti, ai treni affollati, al vociare del pubblico, a quella prima singola nota di pianoforte e alle fughe rosse di carne viva; telefonava all’universo, a chiunque e nessuno in particolare, ma c’era sempre e solo la sua voce ad attenderla, e il suono meccanico del telefono dall’altro capo della linea, che continuava a squillare a vuoto.
Illustrato da Andrea Caligaris
Scritto da Nadia Caruso
Fughe | Racconto | Indigeribili
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