La perdita, il lutto e l’ineluttabilità della vita e della morte. Un ragionato dolore.
di Chiara Bianchi
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Joan Didion non è più tra noi da pochi mesi. Nel dicembre del 2021, all’età di 87 anni, il suo corpo, provato dal Parkinson, si è spento. Didion ha fatto del genere biografico un punto fermo della sua prosa, nella quale la sua esperienza di giornalista si unisce alla sua storia personale. È stata la voce femminile di spicco del New Journalism negli anni Sessanta e Settanta.
Era il 2005 quando fu premiata con il National Book Award per la saggistica, proprio con L’anno del pensiero magico, ripubblicato in una nuova veste grafica da IlSaggiatore. Nel 2013 il presidente Obama le conferì la National Humanities Medal.
Il mese di dicembre del 2003 fu catastrofico per Joan: sua figlia Quintana in coma e, alle soglie del nuovo anno, la morte improvvisa del suo compagno di vita da quarant’anni, John Gregory Dunne, scrittore e giornalista.
Inizia a scrivere il 4 ottobre 2004, terminando il giorno della vigilia di Capodanno.
«Nove mesi e cinque giorni fa, verso le nove di sera del 30 dicembre 2003, mio marito, John Gregory Dunne, parve subire (o subì) […] un improvviso evento coronarico massivo che ne causò la morte».
Partendo da un assunto quale la vita cambia in un istante, l’autrice riapre la ferita di quell’anno trascorso nel lutto e nella nebbia del dolore, in cui il suo muoversi nello spazio aveva il solo scopo di rincorrere il fantasma della sua vita perduta, irrimediabilmente e per sempre. Il dolore si intercambia con la sofferenza e la speranza di rivedere presto sua figlia Quintana in salute – cosa che purtroppo non avverrà. Quintana muore nel 2005 e di quella forma di dolore ne scriverà le pagine più belle del suo libro Blue Nights.
Un’operazione a cuore aperto nel tentativo di fermare quegli istanti di vita, rielaborandoli attraverso la scrittura. La scomparsa di John sembra vanificare quell’unione terrena che era stata la loro esistenza insieme, come se la perdita della materia fosse presagio della perdita totale, persino dei ricordi. Digressioni ricorrenti sulle loro esperienze, sui loro viaggi, sulle loro case, compongono a mano a mano il mosaico di un’esistenza vissuta l’uno per l’altra, nell’arte e nella quotidianità, nell’amore verso la loro unica figlia. Compaiono persone a loro care, anch’esse morte, come se quel tempo non fosse solo passato ma pure sepolto. I ricordi restano un porto sicuro nei quali perdersi, ritrovare quel tempo perduto e anche scorticarsi la pelle con essi.
Più va avanti nel racconto della sua ricerca di normalità, più è chiaro quanto sia ineluttabile il senso di una vita perduta, che vede la sua fine con la morte dell’altro. Ineluttabile è la morte, difficile da accettare a tal punto da istillare il dubbio della colpa, fino a generare, per un meccanismo di difesa, la caduta nell’autocommiserazione. L’incapacità di generare una reazione, una cattiva autoindulgenza di se stessa. Didion, come spesso accade a tutti gli esseri umani, ha ostacolato le fasi del lutto, dimenticando quella sana tolleranza verso i propri limiti e allontanando da sé la realtà dei fatti, credendo che prima o poi John sarebbe riapparso.
«Non saprei dire quante volte, in una giornata qualsiasi, dovevo dirgli qualcosa. Questo impulso non è venuto meno con la sua morte. Quella che è venuta meno è la possibilità di ottenere una risposta».
La ferita sanguina ancora e soltanto verso la fine di queste pagine, dopo averci fatto toccare con mano la carne fresca della sua sofferenza, Didion sente che qualcosa sta cambiando. Per andare avanti bisogna lasciare andare, soprattutto i morti. Per sopravvivere, per costruire nuovi ricordi. Senza dimenticare, continuando a sentire la marea.
«La consapevolezza che la nostra vita insieme sarà sempre meno al centro di tutti i miei giorni mi è sembrata in Lexington Avenue un tradimento così netto che ho perduto la nozione del traffico in arrivo».
Joan Didion
L’anno del pensiero magico
ISBN 9788842830474
pagine: 236
€ 19,00
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