“Decks Dark” è un brano contenuto in "A Moon Shaped Pool", l’ultimo album dei Radiohead dell’ormai lontano 2016 (c’è da augurarsi che il 2021 fra le tante belle cose che ci aspettiamo ci riporti anche un loro nuovo album). È una delle canzoni meno eseguite duranti i live del loro ultimo tour.
Forse perché Decks Dark è un rapporto sessuale, ascoltare per credere. Questa volta non dovremo fissarci sulle parole e sul loro significato. C’è una sorta di contro sinestesia applicata al dato musicale. Dovremo dimenticare il testo che parla di astronavi che oscurano il cielo, suoni assordanti, cose apocalittiche insomma. Converrà invece soffermarsi sul ritmo, sui cambi di intensità all’interno del brano che colorano e disegnano un ben preciso scenario, per chi lo vorrà e lo saprà vedere, io provo a spiegarlo:
il brano può essere diviso in quattro parti o cellule, a seconda della loro intensità che cambia e muta all’insegna dell’ingresso di nuove strumentazioni e diversi ritmi lungo i quattro minuti e quarantuno della sua durata.
L’inizio è lento e soffuso.
Alle prime “apocalittiche” parole di Yorke (non le ascoltate) si sovrappone uno xilofono che contrappunta la sua voce, sono quattro note ripetute più volte che intercalano la voce del solista dei Radiohead, che in questo caso deve essere interpretata come semplice orpello musicale, senza alcun riferimento al testo, non è questo ciò che interessa in questo caso, sono accenni, ammiccamenti, lentezza, sembrano due amanti, che si guardano, si punzecchiano, uno di fronte all’altro, si sfiorano con le dita come lo xilofono suggerisce, poi a 1:15 in our darkest hour… ecco, è “nell’ora più oscura”, l’apocalisse, che i due danno uno strappo al loro rapporto, al loro fronteggiarsi, il ritmo cambia, si fa avvolgente. La musica decolla, sembra di iniziare a volare, gli ascoltatori insieme ai due amanti che ora si stanno spogliando e dopo i primi preliminari, quando si sfioravano, si accarezzavano, si baciavano leggermente, studiandosi, ora a un ritmo incalzante, deciso ma morbido, si spogliano, si distendono sul letto, si baciano, avvinghiandosi su un letto ormai in disordine, pronti, ma ancora studiandosi in qualche modo, cimentandosi l’uno con il corpo dell’altro come due animali che si sfidano fino a che a 2:31 ritorna il motivo iniziale, quello con i tocchi di xilofono.
C’è una pausa tra di loro: dopo il trasporto che li aveva portati a lasciarsi andare, a sfidarsi, a spogliarsi, ad assaporare la reciproca pelle, ad accarezzarsi più intensamente, a baciarsi sempre più appassionatamente, ecco che i due sembrano ritrarsi come onde, allontanarsi di nuovo, anche se ormai sono nudi uno di fronte all’altro, in piedi, si guardano, si prendono per mano distendendo le braccia, di fronte al letto, quasi dubbiosi sul da farsi, fino a che a 3:11 il ritmo cambia ancora, cambio di ritmo scandito di nuovo da quelle quattro parole: in your darkest hour.
Nell’ora più scura, in questa quarta cellula, e da qui alla fine del brano, l’ingresso potente della chitarra di Johnny Greenwood con alcuni accordi che si ripetono potenti e sanciscono e scandiscono il ritmo del rapporto sessuale vero e proprio tra i due amanti che ora sono di nuovo sul letto in disordine. É la chitarra di Greenwood che dà il ritmo ai movimenti dei due, e il sottofondo di rumori sputati fuori da una drum machine seguono lo stesso ritmo dei due, come se fossero le loro carni che entrano in contatto nel tempo del loro rapporto sessuale, rapporto completo che la voce e le parole biascicate di Yorke sembrano accompagnare in quest’ultimo minuto e mezzo del brano, prima che anche la chitarra si assopisca e che anche la musica si taccia, terminando in modo quasi brusco anche lei il suo amplesso, come i due amanti che ora possiamo immaginare languidamente abbracciati nel silenzio.
© Simone Bachechi
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