Quaderno dell’ultimo viaggio | Racconti Indigeribili

Quaderno dell’ultimo viaggio | Racconti Indigeribili

Scritto da Lucio Dell'Accio
 - Illustrato da Alessandro Curiello -


Quaderno dell’ultimo viaggio

 Once I wanted to be the greatest 
 
No wind or waterfall could stall me
And then came the rush of the flood
Cat Power | The Greatest

 

La nave comparve con un sibilo, emerse dall’orizzonte come una fatamorgana densa di macchie scure, senza contorni. Lo scrittore non riusciva a vedere un punto d’approdo lontano dal molo, e la forma vaga della nave non era una speranza. Le ombre erano meduse gonfie sotto la superficie delle acque del Pireo. Le onde svanivano sotto gli ultimi bagliori del sole, che scintillavano negli occhi di una ragazza bruna, distesa sulla banchina, con la testa posata sullo zaino e i sandali bianchi, fissava il mare largo. Un ragazzo con la camicia agitata dal vento, le maniche ripiegate fino al gomito, leggeva un libro, era seduto su una bitta scrostata e stretta da una gomena abbandonata dall’ultimo ormeggio, che cadeva nell’acqua verdastra. La radiolina a transistor che aveva lasciata a terra, accostata alla bitta, trasmetteva una canzone. La ragazza indicò la nave, lui sollevò lo sguardo dal libro e sorrise, poi infilò Don Chisciotte nello zaino e strinse forte una cinghia. Erano apparsi come figure in una fotografia ingiallita, ritrovata in mezzo a cose che non hanno più senso. Lo scrittore osservava. Vedeva cose che non avrebbe mai scritto. Aveva negli occhi la luce di chi ha vissuto il naufragio, e ha deciso di non tornare. Rimase immobile, aveva paura di essere visto, soffriva un segreto timore, sentiva dentro un corpo senza gravità, disarticolato come una marionetta. La voce della radio cantò no wind or waterfall could stall me... Non conosceva quella canzone, ma provò nostalgia. Quei versi, e la musica, tornavano da un tempo che aveva sepolto, quando desiderare di essere liberi significava qualcosa. Ma forse non era quello il sentimento che sentiva davvero, pensò. Non era nostalgia. Il suo rimpianto non trovava parole. Seguì il cielo verso ovest. L’ultimo lucore precipitava nell’oscurità, che si addensava sulla riva, oltre una gru arrugginita e contorta.

Verso sera era entrato in un circo. Sorrise durante le esibizioni dei clown e degli elefanti, contemplò i volteggi, gli avvitamenti e i salti mortali di Dalgado, l’acrobata solitario del trapezio venuto da Siviglia.
Il finale della sua storia lo immaginò all’uscita dal circo, mentre gli elefanti barrivano nel serraglio.
Scrisse all’alba, disteso sul letto nella camera della pensione con i muri verdi, percorsi da fessure sottili che si perdevano nella penombra. Iniziò a raccontare una storia che parlava del circo, dell’acrobata, dei clown, degli elefanti. Poi cancellò. Scarabocchiò su ogni parola. Su tutto. Abbandonò il quaderno tra le pieghe del lenzuolo. Le pagine vacillavano nella sommessa luce del mattino, davanti alla finestra aperta, sotto i soffi del vento freddo che allontanavano i resti di una notte piena d’echi e senza quiete. Desiderava scrivere la malattia che lo teneva prigioniero, sembrava una soluzione, raccontarla e disfarsene, buttarla via, ma la sua scrittura era disorientata e diafana come uno spettro. La punta della stilografica premeva in un punto, affondava nella carta, lasciava sagome d’inchiostro, e il quaderno era una fortezza spoglia in un cosmo senza ragioni, cieco, che aspettava la resa. 

Al centro di un foglio macchiato d’inchiostro, lasciò scritta l’ultima frase. Nitida. Senza peso. Inabitabile.
non scriverò più

Si calcò il cappello sui capelli lunghi e pallidi, strinse con le dita la falda larga, sfiorò l’orlo con l’indice e lasciò la stanza. Camminò tra le rovine delle Lunghe Mura di Atene, sopraffatte dai muschi luminosi e dai licheni ocra. Era spaventato dal suo pellegrinaggio senza terre, ma si sentiva travolto dal destino in cui sceglieva di finire, smarrito e senza parole, vinto dalla tempesta.
Nel porto ascoltò la voce di una donna che cantava una canzone, vide immagini che si disperdono, come riflessi del passato. Custodiva in una tasca del giaccone una lettera chiusa in una busta spiegazzata. La sfiorò, la strinse tra le dita come aveva fatto con la falda del cappello davanti allo specchio. Quella carta era l’ultimo confine. 

Quando si imbarcò sulla nave con gli altri passeggeri, era buio. Non c’era vento. Sulla banchina cadeva la luce della stiva ancora spalancata. Una macchia di luce color ruggine, e lontano il fremito delle onde intorno al faro.



© Racconto di Lucio Dell'Accio | Illustrazione di Alessandro Curiello | Editing di Paolo Perlini


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