Rigenerazione | Racconti Indigeribili

Rigenerazione | Racconti Indigeribili

Scritto da Alice Albertini
Illustrato da Michela Crespi


Rigenerazione 

La prima volta che ho attraversato la strada in Vietnam, tutto ha sorprendentemente funzionato alla perfezione. Avevo trovato sul comodino della camera d’albergo due foglietti con disegni e brevi frasi che suggerivano di attraversare len-ta-men-te: l’orda di motociclette, a prima vista così irruente, si sarebbe autoregolata per fare passare il pedone.
Mi trovavo ad Hanoi per lavoro. Tre anni dopo la perdita di mia madre, e un mese dopo la perdita del gatto che forse incarnava mia madre, avevo deciso di lasciare la mia città natale e accettare quella proposta in un luogo esotico, indistinto. Ero lì per fare ricerca sui lombrichi.
I lombrichi scavano. Scavano incessantemente gallerie nel terreno, e rendono il suolo fertile. Era stata appena scoperta una specie asiatica lunga oltre settanta centimetri, opalescente, con strisce nere e, grazie alle notevoli dimensioni, prometteva suoli ancora più fecondi.  Il mio compito era studiarla più da vicino. Molto vicino: sezionandola. Il loro corpo può rigenerare alcuni segmenti se tagliati trasversalmente e io passavo le giornate in laboratorio a capire fino a che punto le amputazioni fossero innocue.
La meticolosità scientifica mi compiaceva e lasciava poco spazio a tutto il resto. Viên cercava di aiutarmi, ma era lento con il bisturi e ogni volta che srotolava e fendeva quei corpi bisbigliava in vietnamita qualcosa che sembrava una preghiera. Quella nenia mi irritava. Osservava con turbamento le mie incisioni veloci, si preoccupava del destino degli organi vitali dei lombrichi, mentre delicatamente osservava il mio cuore. Finito il lavoro, niente era più catartico dell’assordante disordine urbano.
Un giorno, Viên smise di recitare i suoi versi, e durante quel silenzio inatteso mi incisi profondamente il pollice. Un’altra volta, il contenitore dei lombrichi interi mi cadde per un crampo alla mano, e quelli iniziarono ad avvolgersi attorno alle mie scarpe. Viên, avvicinandosi, ne schiacciò parecchi, e il rumore appiccicoso della loro morte mi accompagnò per settimane. Finché attraversare la strada non mi divertì più. Vedevo le file di motociclette comporre vermi giganti, affettati sulle strisce dai pedoni, segmento per segmento. Sui marciapiedi di Hanoi il mio corpo tremava, e, incerta su come e dove attraversare, ero urtata dalle persone e insultata dagli autisti. La notte, nel letto, l’insonnia sudava.
Un venerdì sera, era luglio, uscii dal laboratorio per ultima. Avevo promesso a Viên di raggiungere lui e gli altri colleghi a cena, poi saremmo andati al lago Hoan Kiem per uno spettacolo dedicato alla leggenda di una tartaruga e una spada magica. L’asfalto odorava di temporale estivo, i fiori di loto dello stagno universitario si erano già chiusi, la luce dei lampioni era più intensa del solito, pulsava. Avrei dovuto attraversare la strada una sola volta per arrivare al ristorante. Mi avvicinai a un gruppo di persone sul marciapiede, il traffico era febbrile come sempre e cercai conforto nel calcolo collettivo del momento giusto per passare. Ora! Ma non riuscii a muovermi. Qualcosa mi tirava i capelli: non uno strattone violento, piuttosto la sensazione di un pettine risoluto. Ritornai bambina, a quando mia madre mi pettinava nonostante la mia disubbidienza. Socchiusi gli occhi e, quando li riaprii, la strada era illuminata da giganteschi lombrichi luminescenti in posizione eretta, l’asfalto era morbido e le mie gambe oscillavano, i clacson suonavano una marcia funebre.
Sapevo che c’era solo un modo per uscire da tutto questo.  Ripensai a una giornata con Viên, quando mi aveva portato nel paese di Doung Lam per assistere a una danza tradizionale di guarigione. C’era una donna dai denti neri che masticava foglie di betel e guidava una cerimonia per me inconsueta ed attraente. Mi ricomposi. Raccolsi da terra mozziconi di sigaretta, rametti, sassi grandi e sassi piccoli, stuzzicadenti consumati. Poi, china sul marciapiede, allineai meticolosamente tutti gli elementi, descrivendo una serpentina che evitava i piedi dei passanti. Finiti i pezzi mi alzai, respirai profondamente, e camminai scalza sopra ciò che avevo composto, un piede davanti all’altro, prima in un senso e poi nell’altro. Tornata alla metà di quella linea, saltai decisa per lasciarmela alle spalle. Il cielo si colorò, i lampioni avevano ripreso la loro forma, dal lago provenivano fuochi d’artificio che dipingevano fiori e lune. Era arrivato il momento di preparare le valigie.


© Illustrazione di Michela Crespi | Racconto di Alice Albertini | Editing di Chiara Bianchi 


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