© illustrazione di Nettare | Racconto di Fabrizio Sani
Filantropia
Vi prego di seguire il mio ragionamento dal principio. Non tengo certo a dilungarmi oltremodo per esprimere una riflessione personale. Ma vedete, mi è capitato proprio l’altro giorno, mentre come al solito sostavo in un’osteria della zona per poco più di un bicchiere di vino, di rivivere – mentalmente, si capisce – una situazione familiare.
Mi spiego meglio: stavo consultando la pagina dedicata alle previsioni meteorologiche, poiché Fiorenza aveva maturato l’intenzione di fare un giro in barca quel sabato, e io nutrivo una forte speranza a proposito di una precipitazione, che sfortunatamente non avvenne, in modo tale da poter adempiere alle mie mansioni quotidiane in tutta tranquillità: l’abitudine è la felicità più economica, dico sempre io. Il mio bicchiere di vino era sul tavolo dove solo io sedevo. Non era terminato. Lo avevo solo allontanato leggermente in modo da poter ampliare la superficie del giornale e facilitarmi la lettura. Sono sicuro che Domenico, il proprietario, se ne fosse accorto. Ne sono sicuro. Mi fissa sempre, possibile che proprio in quel momento stesse guardando altrove? Allora, dico io, era d’accordo con la cameriera. Anzi, l’idea era sua! Può apparire uno scherzo stupido, ma vi basterebbe osservarlo un po’ per capire che non ha una mente in grado di andare oltre: sopracciglio destro e sinistro che si toccano, sguardo ottuso e inconsistente, naso pecoreccio e peluria che raggiunge le unghie delle mani; io poi non gli sono mai andato a genio. Sarà che non lavoro, o sarà che ho ancora i capelli lunghi mentre a lui non ne è rimasto nemmeno uno; non pensiate però che lo prenda in giro per questo! Io i capelli non li pettino molto: questo sempre, anche quando vado dal panettiere o dall’ortolano, non certo per farmi beffa di lui. Eppure, io non gli vado proprio giù, questo è chiaro. Sì, perché quel bicchiere la cameriera l’ha gettato nel lavandino.
Mi scaldai un po’, è vero, ma non si fa. Non si getta del vino, è anche immorale con tutti bambini che muoiono di sete, considerai io. E questo non certo perché era il mio vino. Avrei difeso a spada tratta il vino di qualunque altro commensale, eccetto forse quello del ragazzo che viene tutti i giorni: probabilmente marina la scuola, che fannullone! Non spiccica mai una parola, beve il suo bicchiere di vino e lascia tutti i giorni la mancia. Quel disgraziato sperpera così i risparmi dei suoi genitori. Pensate che una volta mi trovai a dover presenziare dal medico per una visita ordinaria e arrivai un po’ più tardi all’osteria. Lui aveva il mio giornale. Certo, è di tutti e non intesi fargli pressioni, chiesi solamente se avesse finito, e provate a indovinare cosa mi rispose: «No». Dico io, il giornale è di tutti e va bene, però non potrete non concordare con me che la risposta così formulata è poco gentile, estremamente ineducata. Tuttavia, mi riservai da qualsivoglia commento e mi sedetti nel mio tavolino in fondo, nell’angolo, ad aspettare. Solitamente impiega solo pochi minuti per bere il suo vino e andarsene verso sinistra a fare Dio-solo-sa-cosa tutte le mattine, ma quella mattina non staccò gli occhi dal giornale per ore, quando me ne andai lui era ancora lì, fisso sopra il giornale. Non lo legge mai il giornale! Non c’è bisogno che vi dica che l’ha fatto apposta, solo per torturarmi…
Tuttavia, cercherò di non divagare: quel giorno mi tornò alla mente di molti anni prima, la volta che mia nonna era ricoverata in un piccolo ospedale fuori città, vicino al minuscolo paesino dove abitava – niente di grave, aveva solamente una costola fratturata in un consueto scivolone domestico. Il suo problema vero era un altro: faceva avanti e dietro all’ospedale con cadenza mensile e io la rimproveravo da molto prima che la sua affezione iniziasse ad acutizzarsi. Soffriva di filantropia. Ho provato in tutti i modi a salvarla, trovandomi sempre solo in questa battaglia. Con gli altri familiari non c’è mai stato un grande rapporto e comunque non avrebbero avuto un’adeguata visione di insieme per comprendere la drammaticità della situazione. Avevano l’abitudine di sottovalutare tutto: la vita, le mie idiosincrasie e la mia qualità narrativa: conferivano loro il mediocre titolo di bugie. Rispondevo che la verità e la bugia hanno la stessa faccia, ma la bugia la riconosci perché non ha le dita nel naso. Niente. Dicevano che non è così. Non capivano la mia tormentata teatralità. E io già non me ne angustiavo più. I dottori (o sedicenti tali) poi! Loro trovavano le motivazioni più assurde: declino fisico, deficit sensoriali e neurologici, fattori sociali di stress, difficoltà cardiache e respiratorie, disturbi del sonno, carente alimentazione e addirittura sono arrivati a ipotizzare malattie degenerative croniche, e non vi dico la maestria nel trovare sempre qualcosa di vivamente plausibile. Che gentaglia!
Per raggiungere l’ospedale dovetti ovviamente prendere il treno: gli studi di filosofia e le mie contemplazioni quotidiane mi impedivano di ritagliarmi del tempo per conseguire la patente, così rimandai. Era un pallido giorno di metà aprile e per le strade i pollini si correvano dietro. Si sedette accanto a me questa ragazzina bionda di massimo quattordici anni. Il mio non era l’unico posto libero e lei era bellissima. Badate a tener fuori la vostra malizia dalle mie parole, ero più che ventenne e non avevo alcuna pulsione erotica verso di lei. Osservavo solo la larghezza dei suoi occhi, la perfezione dei suoi lineamenti, il delicato rigore del suo piccolo naso e l’avvolgente tonalità cremisi delle sue guance. Mi parlò intimorita. Il suo sguardo tradiva l’angoscia di quel pomeriggio noioso della sua tarda infanzia. Aveva due amici – mi confessò – uno tedesco e uno francese, certamente da questo la sua attitudine diplomatica e neutrale ha preso il sopravvento. Mi raccontò una storiella divertente su una signora grassa che fa la dietologa, ora non la ricordo più, ma era certamente ambientata in un ristorante.
Scese anche lei all’ospedale, ma erano quasi le cinque e dovevo assolutamente passare al bar a prendere un caffè. Se lo prendo dopo le cinque poi la notte non dormo. In questo modo la persi di vista – pazienza, pensai, magari la incontrerò di nuovo sul treno di ritorno. La vidi nuovamente affacciandomi nella stanza di mia nonna. Sembravano in confidenza. Rideva anche l’infermiera: un gineceo! Insolito, pensai.
Aspettai un po’ che se ne fosse andata, non volli entrate per timore di spostare un qualche equilibrio che mi sembrava sussistere. Poi una volta dentro le dissi:
«Nonna, dai ancora soldi alle bambine delle case famiglia?»
Rispose di no.
Ed eccoci qua, trent’anni più tardi, forse qualcuno in più: mia nonna è stata assunta in cielo e lei, la bambina di allora, mi appare dietro la vetrina insozzata a raccogliere le feci del suo bruttissimo cane davanti all’osteria. E poi prosegue imperturbata verso il corso. Non c’era la minima incertezza: era sicuramente lei.
Mi sporsi mellifluo, dicendo: «la sa quella della dietologa grassa?» Non rispose e si guardò intorno, così lo ripetei: «dico a lei, la sa quella della dietologa grassa?»
Disse di no e che le dispiaceva.
Insolito, molto insolito.
Illustrato da Nettare
Scritto da Fabrizio Sani
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