© illustrazione di Patrizia Capacchietti @trishanipha | Racconto di Francesco Fioretti
Ora che il foglio delle istruzioni è volato via non sa più cosa fare. Da qui lo vedo bene, ho un’ottima visuale del fianco della collina. Mi avvicino così da poter descrivere il volto, la sua espressione, ora che non sa più cosa fare. Si china sulla ruota sinistra e cerca di smuovere la catena rimasta incastrata tra l’asfalto e il copertone. La macchina aveva perso aderenza, e nonostante il freno a mano tirato aveva iniziato a scivolare giù, per la pendenza, il ghiaccio. Da sotto il copertone sfila una mano che è gonfia e insanguinata. Ci soffia sopra, unendo le mani e avvicinandole alla bocca, si guarda intorno e poi decide di alzarsi. Raggiunge la ruota destra. Non che ci sia una tormenta, ora ha smesso di nevicare. Ma il versante della collina è quello esposto al vento, la strada è diventata una lastra di vetro e l’uomo, chino sulla ruota destra... non riesco a vedere cosa stia facendo ora. È dietro al veicolo. Da qui, da dove sono, ho un’ottima visuale sulla scena, ma sono troppo esposto e il vento mi brucia negli occhi. Alzo la sciarpa fino a coprirmi la faccia, e mi avvicino alla strada lentamente. Ora l’uomo è di nuovo in piedi e cerca con gli occhi l’altra macchina, quella finita nel fossato. Non aveva resistito alla pendenza, le ruote bloccate avevano lentamente percorso il piano inclinato della carreggiata senza muoversi, eppure muovendosi, senza seguire il tornante in fondo alla ripida discesa, ma seguendo il baratro. La cerca con gli occhi ma non riesce a vedere, perché è notte e la strada ha un unico lampione. L'uomo fa il giro della macchina, apre la portiera sinistra ed entra. Appena sul sedile la macchina inizia a cigolare. Non che io abbia sentito nulla, ma è quello che immagino mentre lo vedo farsi di pietra. Lo vedo venir fuori con una torcia elettrica che regge tra le mani come una candela. Deve aver perso sensibilità alle dita, se guardo bene mi pare di vederle scure e indolenzite, o forse è il riflesso della luce dei fari al neon, ora che ci passa davanti. Sicuramente è in difficoltà, ansima, regge la torcia con la bocca, mentre continua a strattonare la catena della ruota sinistra. Di colpo alza la testa e le sue mani si fermano e la torcia che ha in bocca illumina il fondo della strada, giù verso il tornante. Credo che abbia sentito le stesse voci che ora sento anch’io, delle voci che chiedono aiuto dal fondo del fossato. Sono le voci che di sicuro lo fanno pensare al vento che si è abbassato, così da lasciar arrivare le grida fino a lui. Lo dico perché è quello che sto pensando io ora. Con la torcia ancora serrata in bocca inizia a scendere giù per la strada, ma scivola e cade di schiena. Quando si rialza porta una mano alla bocca, che spilla sangue scuro che bagna il cappotto. La torcia si è spenta ed è rotolata via. Vedo del fumo alzarsi dal punto dell’asfalto ghiacciato su cui il sangue è caduto. L'uomo si accuccia e cerca a tentoni la torcia, guardando il suo sangue con disgusto, e penso che forse potrei scendere per indicargliela, per aiutarlo a trovare quello che aveva perduto.
Ho dovuto spostarmi perché prima del tornante c’è una macchia di vegetazione alta, forse edere e canne. Ho trovato un vecchio pollaio abbandonato, fatto di mattoni e lamiere. Ho scavalcato il recinto e ora sono qualche metro sotto all’uomo. È in fondo alla strada, prima del tornante, a scrutare nel fossato, dove l’altra macchina è scivolata. Le voci che chiedono aiuto sono più chiare, perché più chiaramente si distinguono dalla quiete, e proprio quando sembra che stiano per morire riprendono forza, si gonfiano e tornano a sedersi nel buio. Ricevo una chiamata, rispondo senza guardare il numero. È mia sorella, dice che è pronta la cena, che devo darmi una mossa e che il cane non ha ancora avuto da mangiare. Le rispondo che potrebbe scomodarsi anche lei ogni tanto, non dico sempre, ma ogni tanto. Lei dice che i cani le fanno paura. Riattacco e torno a guardare nella direzione dell’uomo, ma l’uomo non c’è più. Al suo posto si allarga una profonda macchia di buio, non più tagliata dalla torcia. Mi guardo intorno e vedo che la neve, illuminata dalla luna, è un po’ ovunque, stirata come un panno sopra la crosta coriacea della campagna. Scendo dal tetto di lamiera, facendo attenzione a dove mettere i piedi. C’è della ferraglia che spunta dalla neve, la sento con la punta degli scarponi, quindi cerco di evitarla. Scavalco di nuovo la rete di protezione e arrivo in strada. Mi avvicino alla macchina ferma in pendenza sulla corsia di sinistra. La prima è ingranata, il freno a mano tirato, eppure mi sembra che stia per scivolare giù, che anche solo guardandola potrei rompere l'equilibrio che la tiene lì piantata sulla strada e così scelgo di non avvicinarmi troppo. So che non ha nulla a che fare con l’attrito e il resto, ma comunque me ne sto indietro. Raggiungo il bordo della strada e scendo a valle, prendendo per una scorciatoia lungo un pezzo di terreno coltivato da mio cognato, poi risalgo i calanchi, con fatica, fino ad arrivare a casa per la cena.
Ho preso il piatto fondo, come se fosse l’ultimo giorno. Ho versato la zuppa di ceci nel piatto e mi sono seduto. Ho aspettato che si freddasse e ho preso il pane e l’ho imbevuto prima di portarlo alla bocca. Ho masticato lentamente. Ho tolto con cura le molliche dalla tovaglia di plastica, le ho fatte cadere nel palmo della mano e le ho buttate dalla finestra. Ho ripulito il piatto fino a farlo tornare bianco e senza mai alzarmi ho preso un filtro, una cartina e del tabacco. Ho fumato guardando mia sorella che puliva le fave davanti alla macchina per cucire. Dopo aver fumato, ancora senza alzarmi, ho tirato fuori il cellulare dalla tasca e l’ho posato sul tavolo. Finalmente mi sono alzato, sono andato alla finestra e ho sputato di sotto. Ora che riprendo la giacca dall’appendiabito e mi avvio verso l’uscita, mia sorella mi urla qualcosa dall’altra stanza. Quando la vedo arrivare riesco solo a borbottare qualcosa che non sento, o che non ricordo. Metto piede fuori e c'è di nuovo bufera. Mi muovo come un moscerino caduto nel latte, abbacinato dal candore. Prendo il sentiero per i calanchi. Ora devo fare attenzione perché, un piede per volta, il fondo si avvicina. Da lontano riesco già a vedere i fari della macchina ferma sulla strada ghiacciata, e questo mi rassicura, mi rassicura il fatto che tutto è dove deve essere, così uno può anche cenare con calma.
Sono quasi sul ciglio della strada e la macchina è vuota, e così devo riflettere molto, devo pensare molto e soprattutto ricordare affinché quel vuoto venga riempito. Raggiungo il tornante in fondo alla pendenza, stavolta passando allo scoperto, sul ciglio della strada. Mi affaccio sul dirupo e vedo, di nuovo, la macchina capottata. Schiacciato sotto la carrozzeria c'è un uomo che credo di conoscere. Quella che vedo muoversi è la sua testa, e anche le sue mani, appena. Allora scendo, più che altro scivolo, arrivo in fondo, capitombolo nella neve fresca. Mi tocco il viso, perché non lo sento più. Allargo la bocca, alzo le sopracciglia, ma non sento niente. Dal cofano della macchina esce molto fumo, c’è odore di benzina e una manciata di pezzi di vetro hanno bucato la neve, riesco a vederli ora che la neve ha rallentato. Mi avvicino all’uomo e vedo che il suo busto viene fuori dal finestrino, il finestrino del passeggero. Mi guarda e mi dice, Che stavi guardando? Io, non so perché, chiedo scusa. Abbiamo parlato a lungo. Seduto di fronte a lui vedo i fiocchi di neve cadere e accumularsi, cadere e accumularsi sopra la sua schiena. Muove le mani ogni tanto, per far tornare il sangue in circolo. Ora sono blu. Hai fatto bene a rompere con Serena, mi dice. Perché?, gli chiedo. Perché stavi prendendo una brutta strada. Avevi persino iniziato a lavorare, figurati. Io invece ho sofferto molto per Maria, mi dice. Perché riusciva a farmi ridere, poi però alla fine non si ride più. Il suo modo di parlare, e pure quando non parlava... Non era un granché di donna, ma eravamo belli visti da fuori, mi dice. Cos’è successo?, chiedo io. È successo che per lei non funzionava, non c'era storia, diceva, mi dice. Ma vi eravate appena conosciuti, siete stati insieme solo per qualche mese, dico io. È quello che dico anch’io, ma non ne voleva sapere, mi dice. Si fa silenzioso e torna a muovere le mani, in una maniera penosa. Lo guardo e gli dico che davvero non l’avevo visto il tornante, e pensavo di avere ancora tempo, nonostante il ghiaccio... lui mi ferma, dice che gli sta bene così, ma gli fa male la schiena. Gli fa molto male la schiena, e quando mi allungo verso di lui vedo il vano del finestrino completamente schiacciato, chiuso come una morsa, e il sangue che scioglie il bianco della neve, colora la neve di nero come se l'ombra dell'uomo ci si stia versando sopra. Glielo dico e lui risponde che è sangue. Non hai di meglio da fare? Guarda che non devi venire per forza tutte le sere, mi dice. Rispondo che la cosa non mi dà alcun disturbo, che non ho nulla da fare. Non sono molto sicuro di stare bene, con me stesso intendo, dico alla fine. Mi chiede perché. Ho fatto di tutto per averla, di tutto, eppure sono qui. Soffio sulle mani e uno stormo di uccelli si alza in volo, non so da dove. Cosa pensi?, chiedo. Penso che la storia del chi non ha i denti ha il pane non sta in piedi, mi risponde. Aggiunge, dopo aver preso fiato, che sarebbe tutto più facile se si trattasse solo di cercare il pane. E allora cosa va cercando uno?, chiedo. Che ne voglio sapere io?, dice. Fatti un esame di coscienza. Non ne sono mai stato capace, dico. Si tratta solo di non illudersi di poter sapere cosa si va cercando, dice. Un giorno vuoi questo, l’altro vuoi quello, e non fai altro che rimandare. L’importante è avere tempo. Magari è così perché siamo giovani, dico. Ma ti sei visto allo specchio? mi chiede. È che certe volte non mi rendo conto del tempo che passa, mi dico. Lui dice che non è il tempo a passare, allora mi strofino gli occhi e aggiungo che non mi rendo conto di quante volte io sia passato nel tempo. Gli chiedo se ha fame, ma lui risponde di no. Mi dice che ha sete, lasciando spegnere le parole nell'aria senza suono. Allora prendo della neve tra le mani arrossate e gliela avvicino alla bocca. Ne strappa dei morsi, la lascia sciogliere sulla lingua e poi deglutisce. Ne prendo dell'altra e penso a un cane che muore. Lo vedo tirar fuori la lingua, alzare gli occhi al cielo, e mi viene voglia di soffocarlo sotto la neve, allora gli chiedo se vuole morire. Lui continua a mordere la neve. Gli dico di parlare ancora un po’, ma è stanco e vuole dormire. Allora lo assecondo, va bene, dico, dormiamo, poi al risveglio continueremo la conversazione e allora chiudo gli occhi e sento la neve che cade senza rumore e il mio cuore rallentare, come la neve poco fa, rallentare i battiti senza che i fiocchi rallentino, i battiti che ora non sento più.
Chiedo a mia sorella perché sono sul divano del salone. Le chiedo perché il divano sia stato spostato davanti al camino. Ho la schiena umida. Mi guardo le mani e vedo che sono ferite. Chiamo di nuovo mia sorella. Lei compare dalla cucina e inizia a ispezionarmi da lontano, piena di compassione in faccia. Un giorno me lo spiegherai, dice. Che cosa?, chiedo. Deve finire questa storia, dice, senza sfumature nella voce. Allora le dico che non la capisco. Non ci riesci proprio a metterti il cuore in pace? Ma non lo vedi che non ti reggi in piedi? Alla tua età, devi per forza morire congelato pure tu, così mi lasci sola? Ho dovuto chiamare un'altra volta Marcello per venirti a ripigliare sotto al fosso, io da sola non ce la faccio. Un giorno di questi lo chiamerò e lui non ci sarà per darmi una mano e tu creperai solo. Perché non parli con me, invece, e cose del genere, cose del genere come tutte le sere. Provo a consolarla, dicendo che ero finito di sotto perché non l’avevo visto il tornante e c’era troppa neve, neve che cadeva ovunque, il versante era esposto al vento, la strada era di ghiaccio. C’era quell’uomo fermo a metà strada, che cercava di mettere le catene. Quell’uomo che mi fece segno di rallentare. Ma non ne volli sapere. Anche Alfredo che era seduto di fianco a me, e non aveva la cintura, anche lui me lo disse di rallentare. Ma rideva, perché tornavamo fradici da una sagra e i ceci erano crudi, conclusi. Magari se imparassi a cucinare non me ne scapperei in mezzo alla neve a parlare con Alfredo.
Mia sorella se n’è già andata. Se rimango solo in salone, soprattutto se mi trovo seduto sul divano, soprattutto se il camino è acceso, e se è notte e le luci sono spente, mi viene da pensare. Mi limito a questo, senza riuscire a comunicare alcunché. Certe volte mi trovo a parlare, a esser costretto a farlo, e subito mi pare di seppellirmi. Fin dalla prima parola, non faccio altro che buttare strati e strati di calce sopra quell’unica cosa che vorrei dire, che rimane detta solo nella mia testa. Parlo sempre e solo di ciò di cui non vorrei parlare, parlo per allontanarmi da me stesso, per evitare di trovarmi. Mentre penso, invece, mi sembra di essere molto più vicino a quello che direi, se non ci fossero le parole a impedirmelo. Soprattutto quando guardo a lungo le mie mani. Mentre le guardo riempire gli spazi, spezzare le sagome degli oggetti, esistere fuori di me. Anche lì, fuori dalla finestra, con le luci dei paesi di sotto che vibrano e sembrano indicare qualcosa, anche lì mi sento vicino a un significato delle cose che non riesco a trattenere.
Scritto da Francesco Fioretti
Illustrato da Patrizia Capacchietti
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